Con la stessa pietra gialla che riveste alcuni tra i più importanti edifici fiorentini (come, ad esempio,
il tribunale in piazza San Firenze, la Biblioteca Nazionale, la stessa chiesa di Santa Maria Novella)
sono rivestite tutte le facciate della grande stazione di Santa Maria Novella. Le cave d'estrazione di
questa ormai preziosa pietra, detta «forte» quasi a dispetto della sua provata fragilità, sono esaurite
ormai da tempo e solo in città è possibile vederla ancora, anche se spesso in completo stato di alterazione.
La stazione stessa è divenuta l'ultima grande «cava» di pietra inserita in un contesto urbano caotico
e trafficato come quello che la circonda, una pietra che in soli cinquant'anni di esposizione agli
agenti atmosferici ha iniziato a degradare in modo anche vistoso, dapprima lamentando solo qualche
leggera sfaldatura, qualche colaticcio nerastro, poi iniziando a perdere piccoli pezzi, che cadevano dai
cornicioni superiori sul selciato sottostante.
Posta in opera con lavorazioni diverse a rimarcare i cornicioni (a sega), le fascia marcapiano
(a scalpello) e i paramenti (a bocciarda), al momento dell'intervento la pietra presentava una significativa
alterazione cromatica, accompagnata da diffusi fenomeni di decoesione e disgregazione. Lo stato
dei rivestimenti superiori, dove le pietre erano messe in opera bocciardate, era ancor più inquietante
per il diffuso fenomeno d'esfoliazione in atto. Tutta la parte superficiale, per effetto dei cicli di gelo-disgelo,
era distaccata dal sottostante materiale. Alcune pietre, tagliate nel verso della vena, presentavano
ormai solo la vena, di colorazione più chiara, un'intrusione formatasi naturalmente nel materiale.
Lo stato di scagliatura superficiale raggiungeva - in alcuni casi - anche mezzo centimetro di profondità.
I cornicioni, ma soprattutto i sottostanti gocciolatoi, non esposti all'azione del naturale dilavamento,
presentavano estese croste nere sotto le quali la pietra risultava disgregata e decoesionata.
Obiettivo principale dell'intervento realizzato è stato quello di pulire tutte le facciate e quindi di
consolidare e proteggere le pietre in modo che queste potessero riacquistare le loro caratteristiche fisiche
e meccaniche, nonché sopportare i nuovi attacchi da parte degli agenti atmosferici naturali e inquinanti.
È perciò stato messo a punto un sistema di pulitura molto blando, capace di consentire
il distacco naturale delle parti ormai disaggregate e di non sottoporre a nuovi forzi meccanici questa
pietra già fin troppo provata. Le pareti sono state sottoposte a lavaggio con acqua demineralizzata nebulizzata
a bassissima pressione (max 7 atm) tramite un impianto appositamente predisposto.
La pietra forte delle facciate è stata quindi consolidata con un prodotto a base di silossani ed esteri
silicici posto in opera a spruzzo e in diluizione molto alta, al fine di permettere l'assorbimento in profondità
del preparato. Sempre per consentire che il prodotto penetrasse nella pietra, senza creare una
barriera superficiale, sono state poste in opera altre tre mani (a pennello) di solo diluente.
Sulle pietre, montate a giunto aperto, non restava che compiere l'intervento protettivo. L'esito
delle prove e delle campionature non era però da ritenersi totalmente soddisfacente e quindi, al
fine di non creare una pellicola filmicolare destinata in breve tempo a fessurarsi e ad innescare un
nuovo processo di degrado, constatata la buona idrorepellenza già acquisita dal materiale, si è preferito
arrestare a questo punto l'intervento.
Con tecniche differenti, si è intervenuti sulle spalle delle finestre e delle porte in travertino
bianco. In questo caso, non potendo operare la pulitura mediante lavaggio con acqua (le particelle
ferrose naturalmente contenute nel materiale sarebbero state portate alla superficie ed avrebbero lasciato
consistenti tracce del loro affioramento), si è proceduto meccanicamente all'asportazione dei depositi
carboniosi.
L'attrezzatura sperimentale consisteva in un trapano da carrozziere capace di un numero
di giri molto basso, sul quale venivano montati sovrapposti fogli di carta smerigliata di bassissima grana
(00). Sostanzialmente l'effetto prodotto era quello di un'abrasione solo superficiale del travertino che
non arrivava mai ad intaccare la pietra dura, ma capace di asportare i depositi polverulenti e carboniosi.
A dimostrazione di ciò, le carte smerigliate non sono mai state cambiate durante tutto l'intervento,
in quanto non consumate.
A completamento dell'intervento già realizzato, restavano da risolvere le questioni lasciate aperte
dalla caduta di interi pezzi di cornicione, dalla mancanza di continuità nel sistema di smaltimento delle
acque meteoriche, dai giunti che erano stati sigillati con silicone durante un precedente intervento.
Non per motivi di ordine estetico, ma per soli motivi di protezione delle facciate, che risultavano «scoperte»
dalla mancanza di pezzi di cornicione, si è provveduto al rifacimento dei pezzi mancanti attraverso
un'attenta opera di ricostruzione per piccole tassellature parziali. Non trattandosi di estese integrazioni,
ma di piccole parti che non superavano comunque i 30 cm circa di superficie, non si è ritenuto
opportuno intervenire utilizzando materiali diversi o particolari accorgimenti di montaggio.
Ci si è invece preoccupati di ristabilire quella continuità di copertura indispensabile al corretto
funzionamento del sistema di smaltimento delle acque meteoriche. Alcuni dei tasselli realizzati
erano di dimensioni ridottissime, ma la mancanza di questi pezzi consentiva, ad esempio, che l'acqua
penetrasse tra architrave e sottostante muratura, innescando un'azione di degrado di ben più vaste
proporzioni.