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DAL RESTAURO ALLA CONSERVAZIONE
Volume Secondo

Chiara Dezzi Bardeschi, Beatrice Messeri (a cura di)
Alinea Editrice, Firenze, 2008

VIAGGIO NELL'ITALIA DEI RESTAURI: PROMEMORIA PER LA STORIA E PER IL FUTURO DELLA CONSERVAZIONE
1. Ripartire da Venezia, 1964: "un monumento per l'uomo". Per comprendere quanto la Carta di Venezia costituisca, storicamente, uno spartiacque, per non dire una netta svolta metodologica, nell'approfondimento della riflessione sulla cultura del restauro è sufficiente fare solo due semplici verifiche storiografiche: – la prima, sincronica, prendendo come fonte di riferimento lo stesso corposo volume ("Un monumento per l'uomo") degli atti del Congresso tenutosi alla Fondazione Cini in concomitanza con la Mostra di Palazzo Grassi, che offre il confronto – tutto a carattere interno al dibattito italiano– che in quello stesso anno 1964 ne derivò; – la seconda, diacronica, prendendo a riferimento i lavori del successivo Congresso internazionale ICOMOS di Roma del maggio 1981 ("Nessun futuro senza passato"), che permette di valutare il chiarimento disciplinare già registratosi in Italia a distanza di poco più di quindici anni dalla adozione della Carta, a confronto con quello ancora in corso negli altri Paesi europei. È appunto quanto ci proponiamo di fare nei paragrafi che seguono. Sarà bene tuttavia premettere che, per esplicita dichiarazione degli stessi autori (Piero Gazzola e Roberto Pane) nel loro intervento al Congresso del maggio 1964, la Carta nasce come proposta di "parziale emendamento della Carta del restauro italiana" del 1932, anzi dal riconoscimento che, in materia, "il primo e più autorevole testo sia ancora quello della Conferenza di Atene, del 1930, testo fondamentalmente concorde con i più specifici orientamenti ed istruzioni a carattere nazionale, fra i quali è la Carta del Restauro italiana". Segue il dettagliato esame, articolo per articolo, del documento del 1932 con le relative proposte di emendamento. L'albero genealogico della Carta di Venezia è dunque dichiarato: essa è figlia della Carta di Giovannoni, la quale, com'è noto, si poneva come l'opportuno aggiornamento della prima Carta del Restauro italiana elaborata da Camillo Boito ed approvata al terzo Congresso degli Ingegneri e Architetti di Roma nel lontano 1883. 2. Le Carte italiane contro "gli arbìtri del restauro di ripristino". Una costante di tutte le Carte italiane, che contrassegnano la via italiana al Restauro, è la chiara posizione assunta contro il ripristino. Preoccupazione prioritaria di Boito questa, sostanzialmente confermata, sia pure in modo più sfumato, da Giovannoni (è tollerato, all'articolo 2, "solo quando si basi su dati assolutamente certi"), per essere poi escluso, al successivo articolo 3, per i monumenti antichi, con l'invito, al seguente articolo 5, "che siano conservati tutti gli elementi aventi un carattere d'arte o storico ricordo, a qualunque tempo appartengano, senza che il desiderio dell'unità stilistica e del ritorno alla primitiva forma intervenga ad escluderne alcuni a detrimento di altri", nella convinzione che debba prevalere in ogni caso, "insieme col rispetto pel monumento e per le sue varie fasi, quello delle sue condizioni ambientali" (art.6). Nella Carta del 1964 è proprio il ripristino e con esso ogni ingenua persistente suggestione al rifacimento in stile, il nemico da battere. Asserzione quest'ultima drasticamente confermata dalla stessa Teoria brandiana con questo anatema definitivo in cui traspare un esplicito riferimento all'irriproducibilità dell'opera d'arte oggetto del celebre saggio di Walter Benjamin del 1936: "l'adagio nostalgico: 'com'era, dov'era' è la negazione del princìpio stesso del restauro; è un'offesa alla storia ed un oltraggio all'estetica, ponendo il tempo reversibile e riproducibile l'opera d'arte a volontà". Una presa di posizione radicale e concorde, puntualmente confermata come obiettivo prioritario dal preambolo della successiva Carta del 1972 che ricorderà come questo punto "costituisca titolo d'onore della cultura italiana a conclusione di una prassi di restauro che via via si era emendata dagli arbìtri del restauro di ripristino". Per poi spiegare come "un comprensibile ma non meno biasimevole sentimentalismo, di fronte ai monumenti, danneggiati o distrutti, venne a forzare la mano e a ricondurre a ripristini e ricostruzioni senza quelle cautele e remore che erano state vanto dell'azione italiana di restauro". Ed è proprio su queste riflessioni che la Carta del 1972, all'articolo 6, confermerà che sono "proibiti" tutti i "completamenti in stile o analogici, anche in forme semplici e pur se vi siano documenti che possano indicare quale fosse stato o dovesse apparire rispetto all'opera finita". 3. 1956, un precedente anomalo: il "restauro", secondo Barbacci. Per rendersi conto di quanto sia stata decisiva la Carta del 1964 sarà utile ricordare che solo pochi anni prima, nel 1956, nel pieno fervore dello slancio per la ricostruzione del Paese il Poligrafico dello Stato aveva edito, con grande impegno editoriale, quel testo ufficiale del "soprintendente di ferro" bolognese Alfredo Barbacci che ancora faceva proprie le voci dell'antica tradizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), del Baldinucci (Vocabolario toscano dell'Arte del Disegno, 1681), poi riprese dall'epocale quanto 'eretica' "Enciclopèdie" di Diderot e D'Alembert (precocemente diffusa in Toscana nelle belle edizioni granducali di Livorno e di Lucca, poi confluite nel fortunato Dizionario Storico di Architettura di Quatremère de Quincy (Parigi, 1832: traduzione italiana: Mantova, 1844, ma in realtà 1850), nelle quali il restauro veniva ancora etimologicamente identificato con la traduzione dei verbi latini instaurare, restituere, reintegrare, fino a renovare, reficere, puntualmente tradotti in italiano con i termini di riparare, ripristinare, rinnovare, rifare, ricostruire. Tutte identificazioni che, come si vede, attengono alla sfera della sostituzione e della riproduzione e non certo a quelle della ricerca della permanenza e della conservazione del documento materiale. Per di più il ministeriale Barbacci riconosceva nell'incipit del suo volume ("definizioni e concetti"), che anche se in senso stretto "non tutti i lavori compresi in tali categorie sono da annoverare fra i restauri" tendeva ad allargare il campo d'azione dell'operatore definendo restauro secondo "il concetto moderno" ed "un'interpretazione esteticamente rigorosa" (!) ma estensiva anche "la ricomposizione e la liberazione, nonché la riproduzione delle forme scomparse, la produzione di quelle non effettuate, beninteso secondo il progetto dell'autore ed anche la completa ricostruzione di un monumento nella forma originaria, che è un caso particolare della reintegrazione", quest'ultima da eseguire – aggiungeva – "nel suo particolare stile (o nei suoi stili)"! Era questa una lectio interpretativa che contraddiceva platealmente il celebre distinguo di Boito che aveva dato esito alla prima Carta italiana del 1883 e che era servito a mandare in soffitta l'impropria Circolare Fiorelli (1882) sullo "stato normale" del monumento, ma l'Autore non pareva darsene troppo carico, anche se – a giudicare dal confronto diretto tra lo "stato ante" e quello "post", poi fissato a restauro concluso, che la imponente galleria delle foto pubblicate implacabilmente documentava – le sue conseguenze sulla manomissione ideologica del patrimonio monumentale erano davvero pesanti e irreversibili. 4. 1964: Bonelli contro la Carta di Venezia. È chiaro che rispetto alla definizione particolarmente permissiva di Barbacci l'uscita, che sùbito seguì (1963), della Teoria del restauro di Cesare Brandi, allora già da tempo autorevole direttore dell'Istituto Centrale del Restauro (ICR), parve costituire un ben più organico e raffinato castello di riferimento metodologico. Ma la redazione della voce Restauro, curata a quattro mani nello stesso anno da Renato Bonelli e da Cesare Brandi, per la nuova Enciclopedia dell'Arte (EUA) era destinata a scavare un fossato che, solo l'anno successivo, sarebbe divenuto incolmabile con l'adozione e la diffusione internazionale della Carta di Venezia. Si aprì un irriducibile contenzioso tra storici dell'Arte i quali, privilegiando la "reintegrazione dell'immagine", rivendicavano il ristabilimento della compiuta unità dell'opera e architetti che reclamavano la dovuta attenzione alla consistenza materiale ed alla permanenza di tutte le fasi per le quali la fabbrica era passata fino al suo storicizzato assetto testimoniale attuale. Mentre Brandi dichiarava di restauro ogni "attività svolta per prolungare la vita dell'opera d'arte e parzialmente reintegrarne la visione e il godimento", definizione dalla quale ricavava il principio (che è un paradossale capolavoro letterario di volteggiante capacità equilibristica) che "il restauro deve mirare al ristabilimento dell'unità potenziale dell'opera d'arte, purchè sia possibile raggiungere ciò senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell'opera d'arte nel tempo", Bonelli da parte sua si sbilanciava di più nel far coincidere il restauro con "l'azione critica", aggiungendo che "quando il ripercorrimento dell'immagine, condotto sulla sua forma figurata, risulta interrotto da distruzioni o ingombri visivi, il processo critico è costretto a valersi della fantasia per ricomporre le parti mancanti o riprodurre quelle nascoste e ritrovare infine la compiuta unità dell'opera, anticipando la visione del monumento restaurato; in tal caso – aggiungeva – la fantasia da rievocatrice diventa produttrice e si compie il primo passo per integrare il procedimento critico con la creazione artistica". La conclamata priorità dei valori estetici del restauro sul rispetto e la cura dei valori storici, che sono alla base delle due istanze della teoria brandiana, era portata così da Bonelli a legittimare "il famigerato restauro creativo" (Carbonara), bersaglio princeps delle violente critiche scagliategli contro dai protagonisti della Carta di Venezia. Bonelli sosteneva, nell'intervento di restauro, quella "ricreazione della forma" necessaria a raggiungere "la qualità formale che corrisponde all'ideale architettonico del tempo presente". Era proprio il carattere dichiaratamente ri-creativo attribuito al progetto di restauro, incentrato in una "fantastica" attività produttiva ed in una (soggettiva) "opera di gusto" dell'operatore, quello che consentiva al restauratore di arrivare (beato lui) a "possedere compiutamente il monumento" ed a "farlo proprio (!) partecipando alla ricreazione della sua forma fino ad aggiungere o togliere alcune parti di esso". All'improvvisa quanto allora inattesa irruzione sulla scena internazionale della Carta di Venezia si produsse dunque uno strappo teoretico ed applicativo definitivo. Con estremo tempismo sul n°38 del 'Bollettino di Italia Nostra' di quello stesso anno (maggio-giugno 1964) una vigorosa nota a firma di Renato Bonelli (La "carta di Venezia" per il restauro architettonico) stroncava senza mezzi termini l'iniziativa veneziana. Si tratta – commentava l'autore – di una "enunciazione (che) si rivela sùbito impropria e arretrata, manchevole sotto ogni aspetto, ed appare priva di originalità e di possibili sviluppi per il contenuto ovvio, scontato e banale; un risultato incredibilmente povero ed insignificante, che lascia profondamente sorpresi e delusi". Un testo anacronistico, dunque, "schematico e monco, fortemente impoverito e degradato rispetto alla stessa 'carta' italiana del 1932". Il documento, concludeva Bonelli, è "solo una perifrasi di quello del 1932", ossia, in altre parole, si tratta di "un documento vecchio di ottant'anni, in gran parte vuoto e scaduto, che poggia sopra il semplicismo rudimentale ed empirico di un tardo positivismo ottocentesco" il quale "ignora del tutto lo sviluppo della problematica del restauro nell'ultimo ventennio"! Come ha potuto verificarsi una tale singolare regressione? La ragione per lui era semplice: "nella più completa assenza degli scienziati, dei critici e degli storici" la presenza al Congresso di 800 partecipanti si è trasformata in una, poco credibile, "dichiarazione di settore, astratta dal tempo storico" che rappresenta un proditorio colpo di mano degli Architetti a spese degli Storici dell'Arte, i quali, fino a quel momento, potevano a ragione ritenersi, anche per posizione istituzionale, per il ruolo ricoperto nelle Soprintendenze, i garanti privilegiati ed ufficiali (se non proprio più unici) della gestione della tutela del patrimonio artistico del Paese. E Brandi dovette intervenire per mitigare le stesse troppo evidenti aporie che si erano aperte tra il suo pensiero e quello di Bonelli, precisando, a proposito del "restauro creativo", di doverne comunque escludere "la pertinenza all'atto propriamente di restauro, ma non la legittimità". Oltre al suo confermato pronunciamento contro ogni tipo di anacronistica suggestione di restituzione o di ripristino la Carta del 1964 costituiva un buon punto di riferimento su alcuni altri decisivi e prioritari problemi allora al centro del dibattito e della scelta delle buone pratiche del restauro che cercheremo di richiamare qui di seguito sia pure in grande sintesi: – la chiara consapevolezza dell'unicità e singolarità dell'architettura, come documento fisico irriproducibile una volta compromesso o perduto, e della sua autenticità materiale; – il carattere eccezionale dell'intervento di restauro e la normalità di una tempestiva pratica periodica di manutenzione; – la necessità di un'estensione del progetto di restauro al suo contesto ed alla pianificazione territoriale. 5. L'autenticità. Un'importante novità della Carta del 1964 è l'introduzione del termine di autenticità. Gazzola e Pane commentando l'articolo 2 della Carta di Giovannoni ed avversando ogni forma di ripristino ribadivano l'"esigenza di rigoroso rispetto per l'autenticità storica del monumento" per poi proporre la soppressione di quelle ultime undici parole "vaghe e oscure", scrivevano, del testo del 1932 considerate causa di una continua confusione interpretativa che concludono la frase: "il problema del ripristino, mosso dalle ragioni dell'arte e dell'unità architettonica strettamente congiunte col criterio storico, possa porsi solo quando si basi su dati assolutamente certi forniti dal monumento da ripristinare e non su ipotesi, su elementi in grande prevalenza esistenti anziché su elementi prevalentemente nuovi". Il passaggio è significativo, tanto da far identificare nel "rigoroso rispetto per l'autenticità storica" di cui parlano Gazzola e Pane, che fa per la prima volta irruzione nelle Carte (e forse nella stessa storia della disciplina), l'obiettivo fondamentale del restauro. Peccato che questa frase essenziale resti solo nel commento e non sia entrata nel testo dei vari articoli della nuova Carta, la quale si limiterà a richiamare (all'articolo 9) il concetto che "il restauro è un processo che deve mantenere un carattere eccezionale", il cui scopo è quello di "conservare e rivelare i valori formali" – evidente concessione all'istanza estetica – "e storici del monumento". Ma se infatti, il restauro come è stato scritto dagli autori della Carta, "si fonda sul rispetto della sostanza antica" – ulteriore concessione dei supposti troppo "positivisti" autori al neoidealismo ancora dominante in Italia –; se insomma il termine "sostanza", che ricorda gli antichi distinguo della disputa medioevale tra domenicani e francescani su hacceitas e materia signata quantitate, è stato introdotto con abile compromesso per evitare il termine, per molti troppo crudo, di materia; se insomma la sostanza non è altro che la materia stessa che incarna la consistenza fisica, tangibile, dell'artefatto, allora la reintroduzione dell'antico termine fa comunque inevitabilmente pendere il bilancino delle due istanze dalla parte della permanenza dell'autenticità dei componenti materiali del documento. Del resto quale tipo di "rispetto" sia dovuto al patrimonio costruito è poi meglio precisato al successivo articolo 11, il quale peraltro riprende quasi alla lettera l'articolo 5 della Carta del 1932: "nel restauro di un monumento sono da rispettare tutti i contributi che definiscono l'attuale configurazione, a qualunque epoca appartengano". Quello che insomma va concretamente salvaguardato, sembra di poter sottolineare oggi, ad opportuna distanza, è il complessivo palinsesto storico con la sua singolare sommatoria di stratificazioni ("tutti i contributi") depositatesi nel tempo sul monumento. Ed ancora, a proposito di autenticità, si può leggere nel preambolo della Carta: "l'umanità considera (le opere monumentali) patrimonio comune, riconoscendosi responsabile della loro salvaguardia di fronte alle generazioni future. Essa si sente in dovere di trasmetterle nella loro completa autenticità"; bella frase indubbiamente in cui dobbiamo mettere l'accento sull'aggettivo "completa") che vuol ribadire l'impegno della nostra collettività a non tollerare ulteriori perdite, sempre irreversibili, di una sola componente dell'eredità complessiva arrivata fino a noi e che abbiamo la "responsabilità" di trasmettere all'attenzione e alla altrettanto doverosa cura delle nuove generazioni. La Carta di Venezia dunque, malgrado i suoi strategici equilibrismi e compromessi terminologici che affiorano qua e là nel testo, mette il disco rosso ad ogni pretestuoso ritorno all'indietro e guarda avanti verso la salvaguardia delle sommatoria delle componenti e degli apporti concresciuti sul documento-monumento e che ormai fanno parte integrante e inscindibile con esso, a qualunque stagione culturale appartengano. E come riconosce l'intero processo segnato sull'artefatto materiale, boitianamente, esprime un atteggiamento di fiduciosa attesa nell'aggiunta e più in generale nel progetto del nuovo di qualità compatibile che potrà contribuire a mantenere in efficienza ed in uso il patrimonio costruito comune che testimonierà anche di noi e del nostro consapevole passaggio. 6. 1964-1978: dal monumento isolato alla città. Il testo della nuova Carta poneva con decisione, l'esperienza di un cambio di scala, per affrontare il problema non più eludibile della ricostruzione e della valorizzazione della città antica, uscita fortemente penalizzata dalla guerra. L'insofferenza dell'architetto restauratore a non farsi di nuovo rinchiudere nel tradizionale recinto privilegiato ma troppo cortocircuitato del "monumento" nel quale fino ad allora erano risolti, non senza forti incertezze e ambiguità, i metodi ed i modi specialistici di un cantiere di restauro è fin troppo evidente negli scritti (spesso polemici) degli studiosi della disciplina. Tutto ora sollecitava un incontro necessario tra urbanistica e restauro. Andava in questa direzione l'impegno interdisciplinare di cercare di capire e di governare la forte spinta quantitativa allo sviluppo metropolitano. La vocazione cioè ad affrontare il confronto tra le ragioni della salvaguardia dell'identità locale e quelle altrettanto legittime dello sviluppo territoriale, ben evidente fin dagli stessi titoli dei contributi dei protagonisti storici del restauro. Pensiamo ad esempio ai saggi di Giovannoni (Vecchie città, edilizia nuova, 1931) e di Annoni (Scienza ed arte del restauro architettonico, 1946) o dei diretti protagonisti della nuova cultura del progetto urbano come Samonà (l'architettura e l'avvenire delle città) o Quaroni (Il volto della città, 1954). L'Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) si prodigava a promuovere iniziative e convegni sui grandi temi urbani di attualità. Il caso Matera, in cui sembravano assommarsi, in occasione delle elezioni del 1948, tutte le "vergogne nazionali" divenne, soprattutto per merito di Adriano Olivetti, di Ludovico Quaroni e dei giovani architetti del nuovo impegno etico e civile, come Giancarlo de Carlo, il laboratorio d'avanguardia per sviscerare i grandi temi sociali e della qualità della vita. Come riprova dell'intenso anelito collettivo alla dimensione urbana nel 1960 a Gubbio, per iniziativa di un altro grande Padre etico dell'Urbanistica (Giovanni Astengo) viene fondata l'Associazione Nazionale per i Centri Storici-artistici (ANCSA). E solo pochi anni dopo, ancora nell'incubatrice veneziana, da una costola dell'allora già attivo International Council of Museums (ICOM), nasceva l'International Council of Monuments and Sites (ICOMOS), come diretto braccio tecnico-operativo dell'UNESCO che, sotto la dinamica presidenza di uno dei protagonisti della Carta di Venezia (Piero Gazzola) debuttava sulla scena europea a Cracovia nel 1965. Quanto all'altro protagonista (Roberto Pane) lo troviamo impegnato ancora a Venezia, appena due anni dopo lo stesso storico incontro che aveva prodotto la Carta, ad organizzare e gestire, sul precedente del convegno INU di Lucca del 1957 dedicato al tema "Il vecchio e il nuovo", il primo di una serie di fortunati convegni-inchiesta sul rapporto tra Antico e Nuovo nelle nostre città storiche. Intanto dal maggio 1968 arrivano dagli Stati Uniti e dal maggio francese i forti venti della contestazione giovanile a scuotere radicalmente il palcoscenico della formazione universitaria e ad imporre un radicale rinnovamento epocale dei programmi di studio. Ora troviamo anche il già centenario Ministero della Pubblica Istruzione del nuovo Stato unitario dapprima (1972) impegnato a varare la definitiva (e tuttora valida ed operante) Carta italiana del restauro, che ora viene dotata di quattro allegati di settore (tra i quali ora figura anche un documento specifico dedicato alla salvaguardia del patrimonio urbano. Poi (1975) lo stesso Ministero, sul modello francese, cambia pelle, riformandosi, con Spadolini ministro, nel nuovo Ministero dei Beni Culturali. Ma il 1975 è anche l'anno della dichiarazione di Amsterdam e della celebrazione del patrimonio europeo, con i primi interventi "esemplari" a scala urbana, che in Italia portano l'attenzione europea sui piani di recupero del centro storico di Bologna e, a scala regionale, su alcuni piani particolareggiati pilota di restauro conservativo di piccoli centri storici toscani (come Montepulciano affidato a Samonà, Pietrasanta a Quaroni, Castagneto Carducci a Insolera e Certaldo – in occasione delle celebrazioni del centenario di Boccaccio del 1975 – a Dezzi Bardeschi e Cruciani). 7. 1981, Roma: nessun futuro senza passato. Con il nuovo appuntamento dell'Assemblea ICOMOS in Italia del 1981 la sfasatura di pensiero tra Scuola Italiana, che nella Carta fonda la motivazione teoretica della propria via, e la parallela riflessione sul restauro da parte degli uomini di cultura dei Paesi europei vicini, si manifesta in tutta la sua lunga evidenza. Rileggiamo infatti la "molto ampia e variata" relazione generale sulla "Dottrina" presentata da Michel Parent (La doctrine de la conservation et de la restauration des monuments et des sites historiques) ed articolata in ben sei parti. Al contrario l'ex direttore generale Guglielmo De Angelis d'Ossat nella sua relazione generale (Dottrina della conoscenza e del restauro dei monumenti e dei siti) gli metteva sùbito il proprio parere di traverso: "non si può non rilevare – premetteva infatti – che già traspaiono le sue riserve sui princìpi codificati dalla Carta di Venezia. In realtà Michel Parent non prende una decisa posizione sulla dottrina del restauro enunciata dalla Carta, preferendo apparire un possibilista e forse un revisionista. È la posizione – aggiungeva – del resto rispettabile, di molti di noi e di quanti non credono di dover partire da princìpi sicuri e non si riallacciano alle situazioni similari che emergono in altri campi delle arti figurative". Quello che turbava, a nome dei colleghi italiani, il pur olimpico De Angelis d'Ossat era il fatto che lo studioso francese, "non condividendo una visione storicista dei problemi del restauro", sostenesse "l'assioma che ogni intervento si pone in termini entre un certain passé et un certain avenir". Era quella considerazione "un certain passé" che irritava l'ex Direttore Generale e gran Commis del restauro di Stato in Italia: "il passato – egli ribadiva con fermezza – ci è stato tutto tramandato dal monumento, anche con le modifiche ed aggiunte ricevute che documentano la vita dell'edificio e sulle quali non dovremmo avere la presunzione di compiere le nostre scelte preventive: l'unica fondamentale scelta che si richiede da noi è quella del modo migliore per assicurare la conservazione dell'intero bene architettonico, anche il più tormentato e composito". Questo sì che era un parlar chiaro, ben al di là dei sofferti tormentoni fra istanze (e valori) storici ed istanze (e valori) estetici, tra immancabili raffioranti suggestioni per la "reintegrazione dell'immagine" e nuove istanze di permanenza della cultura materiale, tra eliminazione delle "superfetazioni" ed "anastilosi" e ricomposizione di quanto il tempo e gli uomini avevano disperso. Parent vi si dichiara, a detta di De Angelis, "favorevole alle restituzioni così dette legittime e cerca di giustificarne i casi più disparati, non limitandoli soltanto a quelli determinati – vorrei dire imposti – da cause violente, come distruzioni per fatti di guerra". Parent, commenta ancora, negativamente, De Angelis alla luce della Carta italiana, "giunge perfino ad ammettere che i pochi resti di un ensemble classique potranno trovare le chiavi di una fedele ricostruzione anche in extrapolazioni da compiere sulla base di consistenze e forme simili" e dichiarava la propria esplicita "diffidenza verso queste forme" permissive di intervento" che "verrebbero fatalmente a legittimare fantasie e arbìtri". La posizione italiana al contrario ritiene che "l'oggetto architettonico pervenutoci attraverso modifiche e aggiunte dovrebbe invece esser preso in considerazione in forza della sua autenticità storica, in tutte le parti ed a qualunque età appartengano; pertanto non dovrebbe neppure sussistere lo specifico problema della débaroquisation svolto esplicitamente dall'autore" del quale la cultura italiana aveva fino ad allora anche troppo sofferto (con i casi molto criticati della chiesa di Collemaggio a l'Aquila e della cattedrale di Lodi). Ora gli architetti e gli ingegneri italiani che avevano contribuito alla grande svolta epocale del '64 a Venezia (Gazzola, Pane, De Angelis d'Ossat, Sanpaolesi e le loro scuole a Roma, Firenze, Napoli e Venezia) lanciavano ben più lontano di quanto pretendessero gli Storici dell'Arte autori delle grandi sintesi storiografiche tradizionali, la sfida della salvaguardia e del progetto di conservazione dell'esistente, introiettando il rispetto e la cura dell'intero processo evolutivo dell'edificio e dello stesso vissuto che in esso vi si svolgeva. Le parole pronunziate a Roma nel 1981 dall'equilibrato grande Padre della Scuola romana, acquistavano un significato liberatorio rispetto alla (falsa) ossessione dell'alternativa tra valore storico e valore estetico, fino a quel momento fin troppo esibita ed esasperata, peraltro a suo tempo già chiaramente denunziata (e brillantemente superata) dalla Teoria dei valori di Alois Riegl e fin dal lontano 1904). Dopo la Carta di Venezia era arrivata – come abbiamo già accennato –con la circolare del Ministero n°117 del 6 aprile 1972, la nuova Carta italiana del Restauro 1972, corredata di quattro allegati di settore come istruzioni "per la condotta dei restauri architettonici", "per l'esecuzione di restauri pittorici e scultorei" e per le pitture murali, le istruzioni per l'esecuzione degli scavi ed infine le "istruzioni per la tutela dei centri storici". Per individuare questi ultimi si domandava prendere in considerazione, in senso allargato, "non solo i vecchi centri urbani tradizionalmente intesi, ma – più in generale – tutti gli insediamenti umani le cui strutture, unitarie o frammentarie, anche se parzialmente trasformate nel tempo, siano state costituite nel passato o, tra quelle successive, quelle eventuali aventi particolare valore di testimonianza storica o spiccate qualità urbanistiche o architettoniche". A scala urbana dunque, lasciato il criterio selettivo di tipo estetico-iconografico, che costituisce pur sempre un giudizio di valore relativo e mutevole, l'attenzione del funzionario di tutela e del buon conservatore si sposta a favore dei valori storici e strutturali dell'insediamento da proteggere. "Il carattere storico – precisano le istruzioni – va riferito all'interesse che detti insediamenti presentano quali testimonianza di civiltà del passato e quali documenti di cultura urbana"; e, ciò, aggiunge, "anche indipendentemente dall'intrinseco pregio artistico o formale o dal loro particolre aspetto ambientale". In tutti questi casi il buon conservatore, operando a braccetto col diligente urbanista, deve darsi da fare per salvaguardare l'intero organismo urbanistico con tutti gli elementi che concorrono a definirne le caratteristiche "anche nella sua continuità nel tempo e nello svolgimento in esso di una vita civile e moderna". Il recupero del centro storico, in altre parole, è possibile solo "a partire dall'esterno della città, attraverso una programmazione adeguata degli interventi territoriali", anche in rapporto all"esigenza della salvaguardia del contesto ambientale territoriale" di riferimento. E tuttavia, proprio mentre cresce, con la domanda di recupero, l'esigenza di dotarsi di un adeguato quadro teoretico-normativo che meglio definisca l'obiettivo e i conseguenti strumenti operativi, il legislatore vara la nuova legge (la 457 del 5 agosto 1978) che disciplina le norme degli "interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente" per l'edilizia residenziale, le cui troppo permissive categorie d'intervento indicate nel suo famigerato articolo 31 tornano (a bella posta?) a confondere le cose. Nella scala di evidente crescente libertà rispetto ai vincoli dell'esistente, che va dalla manutenzione (sia ordinaria che straordinaria) al "restauro e risanamento conservativo" fino alla ristrutturazione edilizia e a quella urbanistica, si consuma il più incredibile sacco delle risorse costruite che mai legge fino a quel momento avesse potuto immaginare e proporre dal quale il tessuto composito e le fragili componenti materiali del patrimonio urbano escono massacrate. Se la "ristrutturazione urbanistica" si identifica con la totale sostituzione del tessuto edilizio-urbanistico esistente "con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale", anche la "ristrutturazione edilizia" porta a ridurre a macerie l'"organismo esistente". Sono questi ultimi interventi infatti "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente", giungendo a comprendervi anche "il ripristino o la sostituzione degli elementi costitutivi" e l'inserimento "di nuovi elementi ed impianti". E se poi – per finire – la manutenzione ordinaria legittima lo stesso "rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici" e la manutenzione ordinaria che rappresenta il livello più soft dell'intervento, consente di "rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici", ci resta da chiedere cosa rimane dunque in piedi delle fabbriche e del tessuto urbano di un centro storico cavia investito da questo radicale bombardamento distruttivo ufficialmente legalizzato per legge di Stato. E allora non sorprende neppure il fatto, davvero singolare in sé, che tra tante categorie resti assente proprio quella che, invece, dovrebbe dare corpo a fornire la garanzia stessa della permanenza assieme ai suoi limiti considerato che invece qui le opere di conservazione possono essere individuate solo per esclusione rispetto a quelle distruttive che sono consentite. 8. Dal Testo Unico (1999) al Codice per i Beni Culturali (2002). Ed intanto, alla soglia esatta di fine millennio arriva, quando ormai nessuno più se lo aspetta, come risultato di un frettoloso lavoro di collazione e riassemblaggio fatto lavorando con il taglia e incolla sui due testi ormai "storici"delle leggi di tutela fasciste (la 1089 e la 1497 del 1939), quel Testo Unico per i Beni Culturali (1999) cui è assegnato il compito di dare forma e sostanza al nuovo Codice dei Beni Culturali. Il quale, finalmente, all'articolo 34, per la prima volta si impegna a legiferare la tanto attesa definizione: "per restauro si intende l'intervento diretto sulla cosa volto a mantenerne l'integrità materiale e ad assicurare la conservazione e la protezione dei suoi valori culturali". Una definizione, questa, pari pari trasferita nell'articolo 29 ("Conservazione") del Codice del 2002 che si impegna a definirne ulteriormente le possibili articolate componenti: "La conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro". Per poi precisare, nel merito, introducendo, come si può constatare, nuove parole chiave di relativamente nuovo impiego (come prevenzione, controllo, mantenimento, integrità, efficienza, identità e trasmissione) le quali attendono ancora una idonea, corretta interpretazione, ma che sembrano tutte contribuire all'avanzamento della cultura materiale della conservazione. Queste: "-per prevenzione si intende il complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto; -per manutenzione si intende il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell'integrità, dell'efficienza funzionale e dell'identità del bene e delle sue parti; -per restauro si intende l'intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all'integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ad alla trasmissione dei suoi valori culturali". Spetterebbe ora al Ministero, come recita ancora il Codice, "con il concorso delle Regioni e con la collaborazione delle Università e degli Istituti di ricerca competenti" definire "linee d'indirizzo, norme tecniche, criteri e modelli di intervento in materia di conservazione dei beni culturali", oltre ai relativi "profili di competenza dei restauratori e degli altri operatori", nonché "ai criteri ed i livelli di qualità" dell'insegnamento del restauro. Il nuovo Codice ora riporta dunque tutta l'attenzione della ricerca e della pratica disciplinare al problema di fondo della conservazione della cultura materiale come valore prioritario comune, irrinunciabile e vitale, da portare con noi stessi nel futuro e da trasmettere a nostra volta alle nuove generazioni che si affacciano sul palcoscenico della storia collettiva. Forse siamo ancora solo agli inizi di un nuovo percorso consapevole, ma si ha l'impressione che – malgrado tutto – come scriveva l'allora giovane Victor Hugo nel lontano 1831 "il grano è nel solco". La già lunga marcia di progressivo avvicinamento al massimo ascolto, al rispetto, alla cura ed alla auspicata crescita di qualità della città continua...
Marco Dezzi Bardeschi

Dal restauro alla Conservazione Volume Secondo


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